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filare di vite (1998)

filari di vite interrate, plexiglass, 8,70 x 0,30 x 0,35 metri

Il progetto prevede l’installazione di un filare di vite in uno spazio che si sviluppi in lunghezza per non comprimere e ridurre il lavoro a poche piante. L’idea è quella di inserire in uno spazio a forte caratterizzazione urbana un segmento di paesaggio agrario capace di provocare “disordine” non tanto perché contrappone la dimensione cittadina a quella rurale/naturale (non si vuole ricreare un giardino!), ma perché si presenta come un “ritaglio” che resiste ai cambiamenti, attorno al quale l’uomo ha costruito e via via ampliato il tessuto urbano. E’ come se questo angolo preesistesse alla stazione stessa e alla città, come se l’uomo l’avesse custodito e mantenuto in vita nel tempo, proprio in quel luogo, malgrado l’ampliarsi della città, inglobandolo nello spazio urbano e trasformandolo lentamente in una sorta di architettura archeologica.

L’Accademia in Stazione

Stazioni ferroviarie, aeroporti, centri commerciali, autostrade, "nonluoghi" per eccellenza, secondo la definizione di Marc Augè ormai talmente in uso da divenire obsoleta. Comunque spazi non esistenziali e non identitari, di attraversamento e consumo veloce di masse senza pensieri e senza volto. Spazi sintomatici e emblemi di ciò che le città son diventate, stanno diventando, in quest'ultimo scorcio di millennio: centri storici musealizzati che si dibattono nelle parole fra "la vita e la morte"; e tutt'intorno periferie, recinti, riserve di vita nuova e incontrollabile.

Così, se l'arte ha da sempre in qualche modo avuto a che fare con la vita, coi suoi ritmi e le sue mutazioni ambientali, misurandosi con esse e aprendosi ad una ricerca infinita, ebbene, molto semplicemente, come un gesto della vita, dalla frequentazione con un non luogo come la stazione ferroviaria di Bologna, rivisitato ora con una progettualità ludica e utopica, ora con la riflessione sulla memoria che mattoni, rotaie e massicciate hanno accumulato, sono nati i lavori di questi giovani artisti.

Contro l'oblio cui quotidianamente di questi tempi spinge l'eccesso in ogni campo, il sovraccarico di pubblicità, immagini e percezioni, questi giovani, "specie aliena" da sempre a detta di Burroughs, e più che mai nella nostra epoca, levano con quel pizzico di libertà, di trasgressione in più che da sempre è proprio dell'arte, le loro voci/immagini/costruzioni di mondi da un non luogo riserva dal quale sprigionare nuova energia. E riutilizzano materiali e segnali propri del luogo, facendoli emergere nel loro aspetto straniante, invertono le rotte dei normali automatici andirivieni, interrompendo ed ammiccando, invitando ad una sosta, seppur breve. E tentando così di aprire una ''tranquilla conversazione" con questo spazio abitualmente tanto rumoroso; e caotico da esser percepito nell'intimo come silenzio assoluto, vuoto e deserto spazio da reinventare.

Roberto Daolio - Mili Romano